martedì 23 febbraio 2021

ATTENTI ALL'UOMO NERO! Quando il politicamente corretto offende. In difesa della ricchezza della lingua italiana, per essere un po' migliori dell'algoritmo di You Tube.

     L'italiano, come è noto, è una lingua neolatina; è cioè una di quelle lingue, dette anche romanze, che si sono sviluppate da una comune base latina.
     Non tutte queste lingue, però, nel corso della loro formazione hanno conosciuto i medesimi esiti; e anche all'interno di ciascuna di esse non tutte le parole sono state recepite nell'uso moderno allo stesso modo.

     Per esempio, la parola latina causa è entrata in italiano per una doppia via: una diremmo "alta", colta, attraverso la quale si è avuta la parola italiana "causa" che ha una specializzazione giuridica o scientifico - filosofica (la causa in tribunale, la causa prima in filosofia) ; per la via "bassa", popolare, del volgare si è invece evoluta nell'italiano "cosa" dal significato quanto mai generico.
     Anche la parola latina circulum ha conosciuto un percorso non univoco: l'italiano la assorbe a livello colto come "circolo", utilizzato nel linguaggio araldico, matematico, astronomico e ancora una volta, giuridico, ma anche come "cerchio" che, a parte la valenza geometrica, ha un senso molto più generico e compare al posto di "circolo" nei comuni usi idiomatici del parlato.

     Ed ecco una sorte identica per l'aggettivo latino niger, nigra, nigrum che identifica il nero in tutte le sue accezioni. La lingua colta lo trasmette all'italiano come "negro", che anticamente può indicare anche semplicemente il colore, ma che poi si specializza nell'identificare la razza negra; l'uso volgare lo trasmette invece come "nero".

  

    E veniamo ai giorni nostri in cui il progressista politicamente corretto, forse dopo aver visto troppi film, ottiene la supina complicità della politica, della "gente di cultura" e degli organi di informazione e stabilisce che "negro" è termine offensivo: eh, lo dicono gli americani!
    Ora, posto che quello che dicono gli americani ha valore pari a zero nella storia e nell'uso della lingua italiana, analizziamo le due varianti.
    
     "Nero" indica in italiano il colore nero (nero come il carbone) o anche semplicemente il colore scuro (pane nero) ma significa anche sporco, sudicio (lavati! hai le mani nere!; acque nere); comunemente è usato in opposizione, anche se non sempre esplicita, a "bianco" e in questi casi simboleggia l'infelicità e il lutto (in abito nero; una giornata nera; vedere tutto nero), irritazione (essere di umor nero; essere nero in volto), la colpa e il peccato (è un'anima nera; non fare il diavolo più nero di quanto non sia). E ancora: cronaca nera; essere nella lista nera; magia nera; pozzo nero; peste nera e così via.
         L'uso linguistico di "negro", e cioè la variante colta, scientificamente specializzata, e quindi neutra, trova dunque la sua ragione d'uso nell'evitare di associare alla razza in questione tutta la carica semantica negativa che ha il generico "nero".
     Infatti, se dicendo "razza gialla" non si suscita alcuna reazione particolare e dicendo "razza bianca" si suggeriscono eventualmente associazioni solo positive, dicendo invece "razza nera" si stimolano immediatamente suggestioni negative (vogliamo parlare dell'"Uomo Nero" con cui si minacciano i bambini?).
    Ricordiamo anche che, al di fuori di questa casistica, "nero", in opposizione a "rosso", indica un'appartenenza politica.


     
    Riassumendo: la lingua italiana, nella sua ricchezza, fra le due parole "nero" e "negro", entrambe derivate dal latino niger, consente di selezionare il termine di uso più elevato, cioè "negro", e di specializzarlo nell'indicazione della razza negra, alla quale è così risparmiato l'ingresso nella catena di associazioni menatali negative comunemente connesse all'uso di "nero" in italiano.
     Eh sì!, è proprio così: in italiano "negro" ha il valore positivo, o quantomeno neutro, di cui invece è privo "nero"!
     
    A questo, a titolo di cronaca, aggiungiamo poi che anche nell'inglese d'America il termine negro non ha storicamente significato dispregiativo ma descrittivo; e quand'anche, la percezione che hanno gli angloamericani della loro terminologia non deve interferire con l'uso consapevole della lingua italiana.
     


    Un ultimo punto: l'assurdità della questione si rivela appieno nel momento in cui ci troviamo davanti ad altre lingue neolatine in cui il niger latino è entrato nell'uso romanzo in un'unica forma, ad esempio con il nigro dello spagnolo o il nìgor del dialetto parmigiano.


    
     A titolo di curiosità, ecco un articolo di David Borioni proveniente dalla bella rubrica linguistica della "Gazzetta di Parma" dal titolo "Questa nostra lingua" datato 18 settembre 1985.
"... come sostantivo no, mai: avevamo negro e basta [...] Adesso, ad opera dei soliti politici svisceratamente neofili, subito imitati dalla stampa e dalla Rai-Tv, sono venuti fuori i neri (specie al plurale), mettendo in minoranza la vecchia e onesta voce negro [...] L'on. Andreotti, tornando dalla sua recente missione nel Sud Africa, ha parlato  di problemi e di dirtti dei neri. I giornali sono inondati di neri [..] Lo stesso vale per la televisione e per la radio. Nel linguaggio colloquiale, invece, nero non ha ancora attecchito: la gente parla ancora di negri, non di neri, almeno quella di una certa cultura. Ma per quanto ancora? Il bombardamento televisivo è micidiale."
    




    Le cose sono andate ben oltre le previsioni dell'autore dell'articolo: non solo l'uso scorretto si è diffuso fra la gente comune, ma quello corretto è stato addirittura bandito...
     E così, agli intellettuali che chiedono a gran voce l'abolizione del liceo classico per stare alla pari con i tempi e intanto, sempre per stare alla pari con i tempi, chiamano neri i negri suggeriamo una riflessione sulla necessità di continuare a studiare il latino: per non dire sciocchezze come queste.



giovedì 18 febbraio 2021

LE FOGLIE SONO VERDI IN ESTATE. Politicamente corretto e non-pensiero.

     Appare ormai chiaro che non è più possibile limitarsi a guardare commiserando e tacere per quieto vivere. Se infatti gli eventi di Charlottesville del 2017 (vera prova generale dello spettacolo che è andato in scena nel 2020) non hanno avuto se non lievi ripercussioni in Europa, l'onda lunga dei fatti di Minneapolis (a seguito della morte di George Floyd) è arrivata a lambire anche le nostre coste.
Francia, Belgio, Inghilterra e anche Italia: il cuore di quell'Europa che fino a ieri un po' queste situazioni le compativa, con quel sorrisetto di superiore distacco con cui spesso guardiamo gli americani.


     Bene, abbiamo sbagliato: abbiamo sottovalutato non l'importanza dei fatti scatenanti in sé, che ne possiedono ben poca; abbiamo sottovalutato invece l'effetto che decenni di costante lavorio hanno avuto sulle menti degli europei, i quali, contro ogni ragionevole aspettativa, cominciano a mostrarsi permeabili a una propaganda demente e ottusa come quella che ci arriva oggi dagli USA.
     Ora una presa di posizione è necessaria da parte di tutte le persone di buon senso, da parte di coloro che considerano la cultura come un valore fondante della società civile, la storia come un monumento (nel senso etimologico del termine di "elemento che fa ricordare"), l'arte come un tesoro prezioso, la propria lingua come inimitabile eredità da valorizzare sfruttandola e tramandandola in tutta la sua ricchezza; coloro, cioè, per i quali libertà di espressione e di pensiero sono beni irrinunciabili. Lavorando con i libri, e quindi con le parole e cioè con le idee, avverto più che mai quest'urgenza.
     Nell'arte e nel cinema, nella musica, nella letteratura e infine nel più banale quotidiano domina il conformismo dei linguaggi e la conseguente omologazione delle idee. 
     L'espressione prima e il mezzo di trasmissione più immediato di questo devastante malcostume è la lingua cosiddetta "politicamente corretta" che nell'ossessione di "ripulire" la comunicazione da ogni caratterizzazione sessuale, religiosa, razziale ecc. sta portando alla cancellazione di identità individuali e nazionali, allo stravolgimento di principi e valori consolidati della nostra civiltà.
     Questo nuovo strumento di repressione si è progressivamente impadronito prima dei mezzi di comunicazione, poi della politica e della scuola; infine anche del vivere quotidiano, dei biscotti e delle creme cosmetiche.

     Il meccanismo attraverso il quale agisce è molto semplice e lo ha ben evidenziato Alain De Benoist: "Poiché [l'ideologia dominante] non ha più i mezzi per confutare questi pensieri che danno noia, si cerca di delegittimarli non come falsi ma come cattivi" (1).
In questa prassi, la prima cosa da fare per modificare un comportamento "cattivo" è quindi modificare il termine che lo identifica.
      Mi perdonerete l'esempio un po' scontato, ma sempre efficace: il concetto espresso dal pensatore francese è perfettamente rappresentato nel  newspeak la "neolingua" parlata in 1984 di George Orwell. Il fine del newspeak è contemporaneamente cancellare i vecchi schemi mentali e rendere impossibile ogni diversa forma di pensiero, distorcendo, svuotando di significato e  riducendo progressivamente di numero i vocaboli disponibili.
     Ma, quasi incredibile, per certi versi siamo forse già un passo oltre Orwell: la realtà quotidiana, infatti, sta dimostrando che non occorre la dittatura politica per imporre la neolingua: è sufficiente la nostra democrazia. Dallo "sbuono" (ungood) orwelliano al "diversamente abile" per arrivare alla "nuova normalità" e al "distanziamento sociale" di Conte il passo è breve.

     Ora, dunque, se si accetta che "i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo" (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 1918) ne consegue che quando il linguaggio è corrotto anche il pensiero è contaminato. Ingaggiamo dunque battaglia sullo stesso terreno e cominciamo ad eliminare dal nostro uso quotidiano il politicamente corretto, vero grimaldello con cui vengono scardinati i principi sui quali si costruisce criticamente il pensiero e lo scambio nella comunicazione. 
     Esso infatti "è qualcosa di rigido, dottrinario, censorio, letale per la mente, per la fantasia per la lingua e per la capacità di visione. E' contrario alla sottigliezza, alla complessità, alle sfumature, alla sovversione, persino all'indagine" (2)
     Pietra miliare sulla questione è lo straordinario libro di Robert Hughes La cultura del piagnisteo (3) pubblicato in Italia nel 1993. Non per nulla, l'autore parte da questo argomento per arrivare ad alcune considerazioni sul declino dell'impero americano (ancora esilarante e giustamente spesso ricordata la sua definizione del capitano Achab, "il portatore di un atteggiamento scorretto nei confronti delle balene").
     A vent'anni di distanza, in un agile e intelligente pamphlet dal titolo Come sopravvivere al politicamente corretto. Prontuario (semiserio) delle follie iper-correttiste, Luigi Mascheroni ci mette in guardia contro i pericoli di questa non-comunicazione e stila finalmente un Manifesto del Politicamente Scorretto. (4) 


"Occorrerebbe, per svegliare con un elettroschock anticonformista le coscienze intorpidite dalla nuova religione dell'ipermoralismo e del buonismo ecumenico, un Manifesto del Politicamente Scorretto che sappia guardare in faccia la realtà, accettare i conflitti e riscoprire il valore della diversità e provare così a uscire dalla paralizzante palude dell'uniformità perbenista. Come questo, ad esempio:
  1. Fare attenzione quando si parla con un singolo individuo o con un gruppo di persone a usare un linguaggio che marchi con precisione l'appartenenza geografica, etnica, sessuale, religiosa del nostro interlocutore o dell'oggetto del discorso: niente più dell'identità di sangue, di tradizione, di credo, di cultura o di orientamento sessuale costituisce l'essenza dell'individuo, conferendogli una sua propria personalità, non quella che noi ci arroghiamo il diritto di attribuirgli. Annullare le differenze e negare le scelte di una persona significa escluderla, sminuirla, svalutarla. 
  2. Distinguere accuratamente i diversi gruppi demografici rispettando tutte le differenze di razza, di genere e di religione, evitando – per esempio – di usare un generico e offensivo "tutte le persone" quando ci si riferisce esattamente agli italiani o ai cinesi, ai buddisti o ai transessuali oppure etichettare sotto l'anonima espressione "esseri umani" sia gli uomini, quando parliamo di maschi, sia le donne, quando parliamo di femmine. Una descrizione accurata è l'essenza del concettualmente preciso, la generalizzazione lo è del politicamente corretto.
  3. Evitare tutte le volte che è possibile, nei titoli e nelle cariche, la versione neutra, come "presidente" o "sindaco", ricordando che in italiano sarà magari politicamente scorretto ma grammaticalmente è esatto usare il maschile anche quando ci si riferisce a posizioni ricopribili tanto da uomini che da donne: in questo senso si raccomanda un'attenzione particolare nel rivolgersi per esempio al Presidente della Camera in carica, Laura Boldrini, con un deciso "il" Signor Presidente invece di un formalistico e puntiglioso "la" Presidente o un generico e anodino "Presidente". Negli altri casi la declinazione femminile va usata tutte le volte che è applicabile: per esempio meglio usare il termine "poliziotta" invece che un neutro "agente di polizia" o "bidella" invece che un equivoco, peraltro negativo, e quindi offensivo, "non docente". L'importante comunque è evitare lo sgradevole suono nella lingua parlata e scritta di termini come "sindaca", "prefetta", "questrice", "avvocata", "architetta", "la vigile", "la rettrice" ...
  4. Evitare espressioni generiche e denigratorie come "persona con disabilità" oppure "persona con la sindrome di Down", preferendo termini scientificamente più precisi rispetto alle deficienze mentali o fisiche della persona a cui ci si rivolge, come "paraplegico", "maniaco-depressivo", "autistico", "schizofrenico", "apatico", "tossicomane", "etilista", "psicotico"...
  5. Preferire termini che specificano un determinato gruppo etnico o razziale rispetto a espressioni imprecise e vaghe come "migrante" o "extracomunitario". Definire coloro che sbarcano in Italia provenienti dalla sponda meridionale del Mediterraneo con un generico e omologante "straniero" può risultare profondamente irrispettoso per chi rivendica il proprio essere "egiziano" o "libico" o "marocchino". Al più, se non si è certi della nazionalità della persona, meglio un più qualificato "africano".
  6. Incoraggiare l'uso di termini religiosi peculiari e distintivi soprattutto quando si parla di un gruppo che potrebbe comprendere persone di fedi differenti, anche per incoraggiare il dialogo interreligioso. Dire "Dio vi benedica ..." a un evento pubblico in cui sono presenti anche musulmani può essere un utile confronto teologico sui destini ultimi dell'uomo anche per chi crede in Allah, così come affermare che "gli ebrei sono riconoscibili dalla kippah" può aprire a inedite posizioni di reciproco rispetto da parte di chi, come i palestinesi, rivendica il valore identitario di un capo di abbigliamento speculare, come la kefiah. Per gli atei il problema non si pone perché concedono a qualsiasi credo religioso il medesimo divertito compatimento, atteggiamento che peraltro, per identico riguardo, si consiglia di usare nei loro confronti.
  7. Non preoccuparsi eccessivamente delle inferenze che le persone possono leggere nelle nostre parole, così da evitare di dare la spiacevole impressione di preoccuparsi di loro eventuali tendenze o particolari inclinazioni. Per esempio, se stiamo chiedendo a una ragazza se è sentimentalmente impegnata, usare l'espressione "Ti vedi con qualcuno?" invece di un più comune "Hai un ragazzo?", smaschererebbe il nostro dubbio sul fatto che la persona cui ci rivolgiamo abbia un'inclinazione eterosessuale, peraltro statisticamente più probabile: il fastidioso retropensiero della ragazza infatti sarà: "Pensi forse che io sia lesbica?". Il che sarebbe molto imbarazzante.
  8. Ricordarsi che tra un termine politicamente corretto e uno ritenuto discriminatorio, è molto probabile che il meno offensivo, perché più vero, sia il secondo.
  9. Considerare l'ipotesi che oggi il politicamente corretto non indichi la legittima e condivisibile volontà di non ferire le altre persone, ma smascheri piuttosto la paura che qualcuno ci possa accusare di dire qualcosa di scorretto. Tra l'ipocrisia e la sensibilità, vince sempre la prima.
  10. Ricordarsi che la preoccupazione di ripulire il proprio linguaggio è soltanto la fase che precede l'afasia."
     Al di là della provocazione, il Manifesto, a ben guardare, altro non è che l'invito all'utilizzo delle parole in aderenza ai contenuti; ma quello che ai nostri occhi appare come l'ovvio corollario del catoniano "Rem tene, verba sequentur" (possiedi il contenuto, le parole seguiranno), oggi ha un che di sovversivo: ” Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario” (Geroge Orwell, La fattoria degli animali, 1945).
     La frase di Orwell è il fulminante riassunto di ciò che aveva superbamente espresso Gilbert Keith Chesterton quarant'anni prima a conclusione del volume Eretici (1905) nel denunciare i paradossi del relativismo culturale e la difficoltà a far conoscere la verità nelle società moderne:
"La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. [ ...]  Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate". (5)
      E' ora dunque di tornare a impadronirci del nostro linguaggio e del nostro pensiero contro i solerti censori al servizio della non-lingua e dell'omologazione; e mettiamo pure in conto che non sarà facile né incruento ma, come diceva il nostro Giovannino Guareschi che non ebbe paura a usare le parole giuste: 
     "Ho imparato, in quella dura scuola, quanto sia bello, come sia virile, come sia civile dire pubblicamente ciò che si pensa, specialmente quando ciò comporti un grave rischio". (6)


(1) Alain DE BENOIST in "Diorama letterario", 327, settenmbre -ottobre 2015.

(2) Philip GOUREVITCH, Maledetto politically correct, in "Il Sole 24 Ore", 21 giugno 2012.

(3) Luigi MASCHERONI
Come sopravvivere al politicamente corretto. Prontuario (semiserio) delle follie iper-correttiste.
Milano, Il Giornale, 2016.

(4) Robert Hughes La cultura del piagnisteo, Milano, Adelphi, 1993.

(5) Questo il passaggio completo:

"Le verità si trasformano in dogmi nel momento in cui vengono messe in discussione. Pertanto, ogni uomo che esprime un dubbio definisce una religione. E lo scetticismo del nostro tempo non distrugge realmente le credenze, ma anzi le crea, conferendo loro dei limiti e una forma chiara e provocatoria. Un tempo, noi liberali consideravamo il liberalismo semplicemente una verità ovvia. Oggi che è stato messo in discussione, lo consideriamo una vera e propria fede. Un tempo noi che credevamo nel patriottismo, pensavamo che il patriottismo fosse ragionevole e nulla più. Oggi sappiamo che è irragionevole e sappiamo che è giusto. Noi cristiani non avevamo mai conosciuto il grande buonsenso filosofico insito in quel mistero, finché gli scrittori anticristiani non ce l’hanno mostrato.
La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. È una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle. È una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli. Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto".

(6) Giovannino GUARESCHI: Chi sogna nuovi gerani?Autobiografia, a cura di Carlotta e Alberto Guareschi; Milano, Rizzoli, 1993.